LA CHIAMATA AL MINISTERO PASTORALE
Albert
N. Martin
Introduzione
2. I quattro
elementi essenziali di una chiamata genuina
3. Le capacità intellettuali necessarie per svolgere
il ministero pastorale
4. I dono
spirituali necessari per svolgere il ministero pastorale
5. Le
capacità tecniche necessarie per svolgere l’opera pastorale
Appendice
La chiamata al ministero (di Charles Spurgeon)
Tutto
ciò che dirò, dovrà essere riferito a due categorie di credenti. Naturalmente
non parliamo di differenze di classe sociale e non desideriamo negare la verità
del sacerdozio di tutti i credenti. Ci riferiamo, invece, alla diversità di
doni spirituali e al loro esercizio nell’ambito delle chiese locali. Ciò che
sarà detto riguarderà, in primo luogo, coloro che si sono consacrati ad un
ministero d’insegnamento e di predicazione della Parola di Dio come anziani e,
in secondo luogo, coloro che esercitano un dono d’insegnamento nel contesto di
una chiesa locale, senza però occupare la responsabilità dell’ufficio pastorale.
Il soggetto che ci proponiamo di considerare riguarda la chiamata al ministero
della predicazione della Parola di Dio. Per dare immediatamente un fondamento
biblico alla nostra indagine e portare così la nostra mente a pensare secondo
la prospettiva della Scrittura, desidero citare e poi commentare brevemente
quattro passi biblici molto importanti.
La
responsabilità della chiesa.
Nel capitolo due della seconda lettera di Paolo a
Timoteo si legge: «Tu dunque, figlio mio, fortìficati nella grazia che è in
Cristo Gesù, e le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni,
affidale a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri» (vv.
1-2). Timoteo doveva prestare attenzione ed esercitare discernimento riguardo a
due aspetti della vita di coloro che avrebbero potuto essere chiamati al
ministero d’insegnamento. Egli doveva valutare il loro carattere cristiano ed
accertarsi che fossero uomini “fedeli” e “capaci d’insegnare anche ad altri”.
La stessa responsabilità che nel testo è attribuita a Timoteo, un
rappresentante degli apostoli, oggi ricade sulla chiesa. La chiesa locale ha il
dovere di esercitare un attento giudizio riguardo al carattere cristiano e ai
doni di servizio degli uomini che la compongono. È chiaro, quindi, che nella
valutazione di una chiamata alla predicazione è da escludersi ogni forma di
individualismo, che è stato una delle piaghe che più ha danneggiato la vita
della chiesa negli ultimi ottant’anni circa. Oggi, il solo esprimere delle
riserve sulla legittimità della chiamata al ministero di una persona che
afferma di sentire l’impeto della vocazione divina, è considerato come una
bestemmia. Chi dimostra di avere dei dubbi, si sente rispondere: «Dio mi ha
detto di predicare»! Tuttavia, il passo biblico che abbiamo appena letto
demolisce tale atteggiamento. Colui che aspira all’esercizio del ministero deve
essere sottoposto ad un giudizio esterno riguardo alla sua “fedeltà” ed alla
sua “capacità d’insegnare” e la responsabilità di questo giudizio è della
chiesa locale.
La
responsabilità dell’individuo.
Avendo considerato il dovere della chiesa a
proposito della chiamata ad un ministero d’insegnamento, veniamo ora alla
responsabilità individuale. L’apostolo Paolo, dopo aver esposto esaurientemente
le dottrine della grazia nei primi undici capitoli della lettera ai Romani,
esorta tutti i credenti a rispondere alle compassioni di Dio con una rinnovata
consacrazione personale: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di
Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio;
questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate
trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate
per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta
volontà. Per la grazia che mi è stata concessa, dico quindi a ciascuno di voi
che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di
sé un concetto sobrio, secondo la
misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno. Poiché, come in un solo corpo
abbiamo molte membra e tutte le membra non hanno una medesima funzione, così
noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo
membra l’uno dell’altro. Avendo pertanto doni differenti secondo la grazia che
ci è stata concessa, se abbiamo dono di profezia, profetizziamo conformemente
alla fede; se di ministero, attendiamo al ministero; se d’insegnamento,
all’insegnare; se di esortazione, all’esortare; chi dà, dia con semplicità; chi
presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le faccia con
gioia» (Romani 12:1-8).
In questo passo, l’apostolo
esorta i cristiani di Roma a giungere ad una sobria valutazione dei propri
doni. Nel valutare se stessi si potrebbe cadere in due errori: quello di
sopravvalutare i propri talenti e quello di sottovalutarli. Ambedue questi
estremismi sono peccato. Quindi, è possibile avere un concetto troppo alto di
se stessi e pensare di avere il dono dell’insegnamento quando si ha, forse, il
dono di fare opere di pietà. D’altro canto, si potrebbe avere anche un concetto
troppo misero di se stessi. In questo caso, colui che ha ricevuto
effettivamente il dono d’insegnamento, non lo riconosce oppure, a causa di una
falsa umiltà, si tira indietro e non esercita il ministero al quale è stata
chiamato. L’apostolo condanna ambedue questi eccessi e ci richiama prima ad una
sobria valutazione di noi stessi e poi a consacrarci nel pieno esercizio delle
capacità che Dio ci ha donato.
Una giusta
ambizione.
Il terzo passo che vorrei considerare è il seguente:
«Certa è quest’affermazione: se uno aspira all’incarico di vescovo, desidera
un’attività lodevole» (I Timoteo 3:1). Da queste parole appare evidente che
secondo Paolo una giusta ambizione per il ministero pastorale è una cosa degna
di lode. Nel testo non vi è alcuna indicazione che il desiderio di essere un
anziano di una chiesa locale sia di per sé peccaminoso. Anzi, la frase “se uno
aspira all’incarico di vescovo, desidera un’attività lodevole” era divenuta
nella chiesa un’affermazione “certa”, ossia un detto conosciuto fra i
cristiani, un modo di dire in voga nel linguaggio corrente della chiesa
primitiva, almeno nell’area dove Timoteo operava. Tale parola era “certa”, come
“certa e degna di essere pienamente accettata” era l’affermazione che “Cristo
Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori” (I Timoteo 1:15). Dunque, il
desiderio di essere vescovo non è di per sé peccaminoso.
Ma leggiamo ora Giacomo 3:1: «Fratelli miei, non siate in molti a far
da maestri, sapendo che ne subiremo un più severo giudizio». Con queste parole,
sembra che Giacomo stia cercando di scoraggiare coloro che potrebbero avere il
desiderio di svolgere un ministero d’insegnamento. Infatti, se consideriamo
soltanto l’incoraggiamento di Paolo senza prendere in considerazione
l’avvertimento di Giacomo, la nostra prospettiva sarà sbagliata. Lo stesso è
vero se ci soffermiamo su Giacomo senza riflettere sulle parole di Paolo.
Ambedue i testi sono necessari affinché la nostra prospettiva sia equilibrata.
Il desiderio di insegnare è una cosa buona, ma non deve essere l’aspirazione di
tutti.
I quattro testi che abbiamo
considerato ci aiutano a comprendere la grande serietà con la quale dobbiamo
affrontare la questione della chiamata al ministero d’insegnamento, sia in
relazione ad un ministero pastorale, sia in riferimento all’esercizio di un
dono d’insegnamento in un contesto più limitato.
Estratto del primo capitolo
SEI RAGIONI SBAGLIATE PER
CUI ALCUNI ASPIRANO AL MINISTERO D’INSEGNAMENTO
Ritengo necessario iniziare ad approfondire
l’argomento della chiamata al ministero pastorale valutando sei ragioni o
motivazioni sbagliate per le quali alcuni, purtroppo, desiderano esercitare, o
già esercitano, un ministero di insegnamento.
1. Una
valutazione errata dei propri doni.
È proverbiale che in quasi ogni piccola chiesa di
campagna vi sia una carissima sorella anziana convinta che la cosa migliore che
può fare per la sua chiesa è cantare un assolo ogni settimana. Il problema è
che vi è solo una persona che apprezza la sua voce: se stessa! Per tutti gli
altri, queste sue appassionate ‘performance’ con un’estensione vocale che non
supera le tre note, sono un peso enorme. Il problema di questa cara sorella non
è la mancanza di sincerità. È convintissima che il suo ‘ministero’ musicale sia
una vera benedizione per la congregazione. Il suo problema è che la valutazione
che ha fatto delle proprie capacità vocali è completamente sbagliata. Inoltre,
la nostra cara sorella tende ad essere sorda alle amorevoli riserve che, di
tanto in tanto, i fratelli e le sorelle provano ad esprimere riguardo al suo
‘ministero’ e reagisce giudicandoli completamente incapaci di apprezzare le
cose belle della vita. Il problema diventa molto più grave quando si compiono
errori di valutazione riguardo al ministero dell’insegnamento. Infatti, un
conto è sopportare qualche stonatura una volta a settimana, ma quando i santi
di Dio sono costretti a subire lo strazio dell’ascolto, settimana dopo settimana,
di uomini che predicano senza aver ricevuto da Dio alcun dono d’insegnamento,
dal loro cuore sorge lo stesso grido di Caino: «Il nostro castigo è troppo
grande perché noi lo possiamo sopportare!» (Genesi 4:13).
Il problema è che non si è compreso l’insegnamento
dell’apostolo: «Dico a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto
di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura
di fede che Dio ha assegnata a ciascuno» (Romani 12:3). Come ho indicato in
precedenza, deve esserci una valutazione sobria di se stessi, che non
sopravvaluti né sottovaluti i doni che Dio ha concesso. In molti casi, ciò che
porta a sopravvalutare i propri doni e le proprie capacità è l’orgoglio. In altri, invece, è una
questione di ignoranza. La
conseguenza è che non si giunge ad una corretta comprensione delle grazie
necessarie per esercitare il ministero d’insegnamento o di predicazione. Oltre
a ciò, nella maggior parte dei casi, c’è anche il rigetto dell’opinione dei
propri fratelli in fede. Si respinge il loro consiglio e ci si ostina a
mantenere una concezione errata del proprio ruolo all’interno della chiesa
locale.
[…]
2. Alcuni
aspirano alla responsabilità d’insegnamento a causa di un desiderio carnale per
l’autorità e l’attenzione connessa a tale ministero pubblico.
[…]
3. Alcuni
aspirano ad un ministero d’insegnamento e predicazione a causa di una
concezione errata della spiritualità.
[…]
4. A volte, si
commette l’errore di intraprendere un ministero d’insegnamento a causa di una
concezione inadeguata riguardo all’ampiezza delle qualifiche necessarie per
tale scopo.
[…]
5. Altri
intraprendono un ministero d’insegnamento a causa di bisogni psicologici d’identità
personale mai soddisfatti.
[…]
6. Le
sconsiderate ambizioni degli altri.
[…]
Estratto del secondo capitolo
Nel nostro primo studio sulla chiamata al ministero
cristiano, abbiamo riflettuto su sei ragioni sbagliate per cui alcuni aspirano
a tale opera. Ora, invece, considereremo i
quattro elementi essenziali di una chiamata genuina al ministero pastorale. È
necessario premettere che ciò che abbiamo considerato nel primo studio era
valido anche per coloro che esercitano un dono d’insegnamento in una chiesa
locale, mentre queste riflessioni riguardano quasi esclusivamente coloro che si
sentono specificamente chiamati a svolgere l’ufficio di anziano, ossia coloro
che, secondo le parole di Paolo, “si affaticano nella predicazione e
nell’insegnamento” (I Timoteo 5:17). […]
1. Prima di tutto deve esserci un desiderio per il ministero che provenga
da giuste motivazioni.
[…]
2. In secondo
luogo occorre che ci sia la presenza di quelle qualità spirituali e morali che
evidenziano un’esperienza cristiana genuina e matura.
[…]
3. Il terzo
elemento di una chiamata genuina al ministero è la presenza dei doni necessari
per il suo adempimento.
[…]
4. Il quarto
elemento è la possibilità di un ministero in una chiesa locale che manifesti
l’approvazione di Dio e la guida della sua provvidenza.
[…]